Per quasi quarant’anni aveva prescritto, consigliato, firmato, deciso. Con una penna impugnata con fermezza.
Ora che la sua mano tremava, costretta a sorreggere una cartellina piena di esami, sembrava che tutto ciò non avesse più alcun peso.
Entrò nell’ambulatorio con passo incerto.
Il corridoio odorava di disinfettante fresco e ansia vecchia.
C’erano sedie occupate da pazienti silenziosi, ognuno con la propria busta di referti, ognuno con un tempo di attesa previsto.
Lui no. Lui aveva un tempo non misurabile.
"Collega! Ma che piacere vederti!" disse il reumatologo, uscendo per caso dalla stanza.
Gli tese la mano con entusiasmo studiato. Rossi gli mostrò l’impegnativa, la prenotazione, i valori fuori scala. L’altro sorrise, come se stessero parlando della finale dei mondiali.
"Ma certo! Non ti preoccupare. Vieni pure quando vuoi".
"Sono venuto. Ho l’appuntamento".
"Sì, sì, ma... oggi è una giornata piena. Sai com’è. Domani magari? Passa un attimo, eh...".
Passò. Anche il giorno dopo. E quello dopo ancora. Ogni volta lo stesso sorriso, la stessa mano sulla spalla, la stessa frase:
"Sai che per te c’è sempre posto. Ma oggi ho un'urgenza".
Rossi cominciò a portare con sé un libro. Leggeva in sala d’attesa come un paziente vero. Quando chiamavano altri, abbassava lo sguardo per non sentirsi escluso.
Non sapeva se detestare più i colleghi o se stesso.
Un giorno, lo assegnarono provvisoriamente a coprire un turno scoperto nel nuovo ambulatorio sperimentale distrettuale. Da un po' di tempo l'Azienda Sanitaria se ne inventava una al giorno per le carenze di medici nel territorio.
Non capì se fosse un favore o una beffa. Indossò il camice con l’automatismo dei vecchi tempi.
Ricevette dieci pazienti. A tre prescrisse la stessa terapia di cui aveva urgente bisogno. A uno disse:
"Dovrà fare questo esame ogni due settimane. Non lo dimentichi, mi raccomando".
Il paziente annuì, grato.
Rossi pensò che anche lui non avrebbe dovuto dimenticare i controlli e la terapia, ma li aveva presenti in testa anche se nessuno glielo ricordava.
Alla fine del turno, rimase seduto un attimo in silenzio. Il collega del turno successivo arrivò in ritardo. Rossi disse: "Senti... avrei bisogno anch’io di…".
"Certo! Ti faccio io le ricette, i certificati, te lo meriti. Ma oggi non posso. C'è gente che aspetta e io a fine turno devo andare da mia moglie che…".
Non finì la frase. Il collega esclamò: "Avanti il prossimo!". E Rossi lasciò la stanza. Quella notte sognò di essere convocato per una visita alle tre del mattino. Si presentava puntuale, tremante, ma trovava solo una porta chiusa e la luce spenta. All’alba si svegliò col battito accelerato e la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Forse un esame. Forse se stesso.
Il primo scompenso arrivò in silenzio, come una nebbia che entra da una finestra lasciata socchiusa.
Il dottor Rossi lo notò una mattina, quando, salendo una rampa di scale per visitare un anziano al terzo piano, dovette fermarsi due volte. Non per mancanza di fiato. Per mancanza di qualcosa di più profondo, di più intimo: motore, volontà, centro.
"È il cuore" pensò. "O forse i reni. O forse tutto".
Non aveva bisogno di diagnosi, conosceva a memoria i sintomi. Si impose di non cedere, di non darlo a vedere. Ma quando il paziente gli disse: "Dottore, oggi ha un’aria stanca…" lui sorrise, come per farsi perdonare.
Quella sera si decise: andò in Pronto Soccorso.
Il cartello diceva “Accesso rapido – Codici già assegnati”, ma per lui non esisteva codice.
Appena si sedette, l’infermiera lo riconobbe.
"Ma... dottor Rossi! Cosa ci fa qui?".
"Ho bisogno di un controllo. Ho edemi, ho aumento di peso, ho dispnea da sforzo...".
"Subito chiamo il medico di guardia. Ma lei non faccia fila. Ci penso io".
Lui non fece fila. Ma non fu chiamato.
Due codici verdi entrarono. Poi un codice bianco.
Poi tre pazienti accompagnati dai carabinieri.
Passarono tre ore.
L’infermiera tornò con aria colpevole:
"Il suo collega è in difficoltà, troppe urgenze… Ma appena si libera la chiama".
"Capisco" mormorò, mentre un codice verde entrava.
In realtà non capiva più nulla. Il mondo sembrava organizzato con una regola ferrea: gli altri prima. Non per gravità clinica. Per normalità.
Verso mezzanotte si alzò per andare in bagno. Tornando vide due medici mangiare davanti al monitor. Uno disse all’altro:
"C’è anche il collega Rossi, ma ormai è tardi. Magari domattina, eh?".
L’altro annuì con la bocca piena.
Se ne andò senza salutare.
Dormì male. Il giorno dopo provò a contattare un ambulatorio specialistico. Rispose la segretaria: "Il dottore oggi non riceve, ma per il collega Rossi c’è sempre un posto. Gli scriva una mail".
Scrisse tre mail. Nessuna risposta.
Cominciò a contare i giorni.
Cinque tentativi di visita. Quattro ambulatori. Due accessi in PS. Zero diagnosi. Zero terapia. Zero parole vere.
Nel frattempo lavorava. Visitava, prescriveva, rassicurava.
Ogni tanto gli sfuggiva qualcosa. Un valore trascritto male, un farmaco invertito. Gli occhi gli si chiudevano a metà frase. I pazienti non capivano, e questo lo umiliava ancora di più.
Il telefono squillò una sera.
"Collega carissimo! Ho visto la tua mail, scusa il ritardo. Domani passa, parliamo un attimo".
Rossi sentì un filo di gratitudine scorrergli nel petto.
Il giorno dopo si presentò puntuale. Il medico era lì. Ma stava partendo: "Scusami, collega. Ho un impegno urgente. Però ti penso. Davvero".
Rimase in piedi nell’atrio, con il cappotto ancora addosso, per almeno dieci minuti. Nessuno gli parlò. Nessuno lo vide.
Gli sembrò che il suo corpo fosse diventato trasparente. E pensò che se fosse morto in quel momento, forse gli avrebbero trovato un codice. Forse. Lo convocarono per un confronto clinico.
Non per curarlo, ma per “un confronto tra colleghi”.
Il dottor Rossi fu sorpreso, ma accettò. Pensò: forse mi ascoltano, forse qualcosa si muove.
Si presentò puntuale, col fascicolo degli esami, una copia dell'ultima ecografia e una penna, come se bastasse portare prove per esistere.
L’ufficio del dottor Renato Calli, direttore sanitario, era al quarto piano. Vetri oscurati, piante vere e silenzio ovattato.
Calli lo accolse con un sorriso disarmante, la voce rotonda da simposio, l’aria da pastore illuminato: "Carissimo collega, accomodati. Come stai?".
Rossi si sedette. Cominciò a parlare del peso che cresceva, della pressione altalenante, delle fitte notturne. Mostrò le analisi. Parlò piano, come si parla a chi potrebbe non comprendere.
Calli ascoltava con occhi pieni di finta empatia: "Hai fatto tanto per questa struttura. Nessuno lo dimentica. E ora che sei tu ad avere bisogno… ecco, dobbiamo fare attenzione".
"Attenzione? A cosa?"
Calli si alzò, andò alla finestra.
"A non creare tensioni. Gli altri pazienti, i colleghi… vedi, tu sei un simbolo. Devi dare un esempio. Non possiamo farti sembrare… un utente qualsiasi".
"Io sono un utente qualsiasi. Sto male. Ho bisogno".
La voce gli tremò, ma non d’ira. Di vergogna. Per lui. Per tutti.
Calli si girò.
"Lo so. Per questo ho parlato col reparto. Ti riceveranno appena possibile. Forse tra due settimane. Ma non devi stare in corridoio o in sala d'attesa; ti serve un ambulatorio, puoi usare il nostro. Tieni la chiave. Fai base qui. Ti chiamo io".
Gli diede davvero una chiave.
Un ufficio senza lettino. Senza ecografo. Senza personale.
Rossi passò le due settimane recandosi quotidianamente nell’ufficio vuoto, mettendosi seduto alla scrivania come un ospite dimenticato. Usciva ogni tanto per prendere un caffè. Salutava chi passava.
Quando, alla fine, tornò al reparto per la visita promessa, fu accolto da un medico giovane che non l’aveva mai visto prima.
"Ah, è lei il collega? Calli mi ha parlato molto bene di lei. Pensavo fosse una consulenza. Ma non ho tempo oggi. Provi lunedì. Oppure…".
"Oppure?".
"Scriva una mail direttamente al primario. Lui la segue personalmente, vero?".
Rossi non rispose. Tornò giù a piedi, lentamente.
Fuori pioveva, ma non aprì l’ombrello.
Nel tragitto verso casa si chiese se fosse stata tutta colpa sua. Forse non era stato abbastanza insistente. Forse era sembrato forte. O forse non era più riconoscibile: né come medico né come paziente. Una figura sospesa, da tenere in tasca come un biglietto da visita smangiato, da esibire con rispetto e da ignorare con discrezione.
Arrivato a casa, aprì la cartella clinica sul computer.
Scrisse una nota:
“Stato attuale: peggioramento progressivo. Cure: in attesa”.
Poi rise.
Rideva da solo. Ma era una risata corta. Tagliata.
Nei giorni successivi, il dottor Rossi smise di dormire.
Non per insonnia, ma per vergogna. Una vergogna sorda, radicata, che montava ogni volta che chiudeva gli occhi. Gli tornavano in mente i volti gentili dei colleghi che lo accoglievano con frasi come “Vedrai che ti sistemo tutto io”, ma poi sparivano in una riunione, un convegno, una mail da scrivere. E lui rimaneva lì, con la cartellina aperta e lo stomaco chiuso.
Cominciò a parlare con se stesso nei corridoi. A bassa voce.
Diceva frasi come:
"Oggi forse. Oggi sì".
Oppure: "È solo una visita. Non chiedo l’elemosina".
Un giorno, entrando nell’ambulatorio di cardiologia, trovò la porta chiusa. Non per guasto. Ma perché stavano dentro a mangiare. Lo vide dallo spiraglio. Due colleghi davanti a un vassoio di pizzette.
Bussò. Nessuna risposta. Bussò di nuovo.
Uno dei due si alzò, aprì appena:
"Rossi, collega, proprio adesso? Dai, torna più tardi. O scrivi una mail".
"L’ho già scritta una mail, anzi sette".
"Ah. Allora risponderanno".
Non risposero.
Il gonfiore alle caviglie era diventato permanente. Ogni mattina infilare i calzini era una trattativa con la gravità. Il viso era pallido, gli occhi incavati.
Un paziente gli disse: "Dottore, sta bene?".
E lui rispose, senza pensarci: "No. Ma non importa".
Cominciò a saltare le colazioni. Poi i pranzi. Poi le medicine. Non per dimenticanza, ma per stanchezza. Ogni gesto gli sembrava inutile.
Un lunedì mattina crollò nella sala d’attesa della sua ASL.
Gli infermieri accorsero.
Uno disse: "È il dottor Rossi!".
L’altro: "Ma che ci faceva lì, in piedi? Aspettava?".
"Sì. Aveva detto che voleva vedere un collega".
Lo portarono in PS.
Gli assegnarono un codice giallo, poi declassato a verde.
"È un medico, non farà storie" dissero.
Mentre era steso su una barella, udì due infermieri parlare tra loro, senza abbassare la voce:
"Questo è quello che da settimane cerca di farsi visitare, no?".
"Eh sì. Ma nessuno ha voglia di prenderselo in carico. È un casino. Mezzo paziente, mezzo collega".
Poi uno aggiunse: "Mi fa quasi pena. Però… anche lui dovrebbe capire. Non può pretendere di essere trattato come un paziente qualsiasi".
Rossi non parlò.
Aveva freddo, ma non chiese una coperta.
Quella notte non dormì. Vide la flebo scendere, goccia dopo goccia, come un metronomo muto. Pensò a quante volte aveva detto ai suoi pazienti:
"Tranquillo, ci penso io".
Pensò a quante volte l’avevano detto a lui.
Il numero era lo stesso. Solo che nel suo caso, nessuno l’aveva fatto davvero.
Il mattino dopo, una dottoressa giovane si avvicinò.
"Dottor Rossi… le hanno rifatto gli esami. È in peggioramento. Dobbiamo ricoverarla. Ma il reparto è pieno".
"Pieno. Sì. Capisco".
La dottoressa si morse il labbro. Poi disse: "Potremmo metterla in appoggio. In sala visite. Solo per oggi. Poi vediamo".
E così fu.
Lo sistemarono su una lettiga in un ambulatorio vuoto. Lì passò tre giorni, tra carrelli e armadietti. Senza bagno personale. Senza finestra.
Quando un collega entrava per sbaglio, lo salutava con imbarazzo.
"Oh… sei tu? Ma che ci fai lì?".
"Aspetto che mi visitino".
"Ancora? Ma… pensavo che…".
Nessuno finiva mai le frasi.
Il quarto giorno, nella sala visite dove era stato “appoggiato”, il dottor Rossi smise di rispondere alle domande.
Non per sgarbo. Non per ribellione. Ma per stanchezza.
Risparmiava le parole, come si risparmiano i respiri quando l’aria sembra costare fatica.
Un’infermiera entrò con una cartellina.
"Come va, dottore?"
Silenzio.
"Serve qualcosa?"
Lui fece un mezzo gesto, un cenno che voleva dire “non so”, oppure “non importa”.
Lei uscì in fretta. Forse spaventata, forse solo in ritardo.
Nel pomeriggio ebbe una crisi.
Una di quelle che, su un altro paziente, avrebbe attivato un codice rosso. Per lui fu attivato un consulto. Il collega di medicina interna, chiamato d’urgenza, arrivò dopo quaranta minuti.
"Oddio. Ma è lui? È Rossi?".
"Sì. Era in appoggio. Aspettava un posto".
Il medico guardò i parametri, poi la faccia scavata, le mani fredde, le caviglie come sacche d’acqua.
"Ma perché non è stato ricoverato subito?".
L’infermiera lo guardò senza rispondere.
Lo trasferirono nel reparto la sera stessa. Un letto allestito in fretta, una flebo piazzata male, un monitor collegato con l’allarme disattivato.
Entrò il caporeparto.
"Accidenti, ma com’è potuto succedere? Nessuno sapeva. Nessuno mi ha detto…"
Lo disse come una formula.
Il mattino dopo, il dottor Rossi era ancora vivo. Ma non parlava più.
Una giovane specializzanda, ignara di tutto, scrisse nel diario clinico:
“Paziente collaborante in passato, ora poco reattivo. Non ci sono familiari noti. Ex medico".
La definizione definitiva. “Ex medico”. L’ultima cartella, l’ultima etichetta.
Non paziente fragile, non collega, non nome.
Solo “ex”.
Nella stanza accanto, un paziente con la stessa patologia veniva trattato con farmaci che Rossi aveva indicato anni prima in un protocollo. Lo sentì dire: "Mi hanno curato in tempo. Che fortuna avere un’équipe così attenta!".
Qualcuno propose di metterlo in una RSA, ma la pratica fu rinviata.
Qualcuno parlò di una "commissione valutativa", ma non si riunì mai.
Il giorno seguente, alle 6:40, l’infermiera del cambio turno lo trovò immobile, con lo sguardo aperto e vuoto. La flebo era finita da ore. Il monitor spento. Sul comodino, un foglio scarabocchiato: “Grazie comunque”.
Lo lessero in due. Nessuno capì a chi fosse rivolto. Forse a nessuno. Forse a tutti.
Una settimana dopo, un collega pubblicò un post:
“Addio a un grande medico. Il dottor Rossi ci ha lasciati. Una vita per i pazienti. Un esempio per tutti noi. Sempre disponibile, sempre sorridente”.
Ricevette cento like.
Qualcuno commentò: “Mi dispiace. Non sapevo stesse male”.
Nessuno sapeva niente. Tutti avevano parlato con lui. Nessuno l’aveva ascoltato.