domenica 22 giugno 2025

Gentili passeggeri

    Niko stringeva tra le dita il pacchetto sgualcito di salviette rinfrescanti al limone, seduto nel retro del pulmino che lo riportava verso il parcheggio remoto dell’aeroporto. Aveva fallito di
nuovo. Zero vendite. Non un grattaevinci, non un caffè, nemmeno il profumo alla vaniglia scontato del 20% del quale tutti dicevano "si vende da solo".
    I colleghi lo ignoravano. La capocabina, durante lo sbarco, lo aveva umiliato davanti ai passeggeri: "Niko, ti rendi conto di aver detto una sola volta che c'erano articoli in promozione? Qui non siamo un'associazione di volontariato".
Niko si era chiuso nel suo silenzio. Non era capace. Non era tagliato. Non era... venditore.
    Nel parcheggio, tra i container e il nulla, accadde. Una figura si avvicinò. Alta, strana, con un sorriso pacato. Si chiamava Eli'ax, e non veniva da qui. Parlava tutte le lingue del mondo e un'altra in più. Gli propose uno scambio. Lui era un extraterrestre, la sua natura e la sua tecnologia potevano entrare nelle menti umane e anche trasformare la materia. Niko avrebbe dormito sull'astronave, senza sogni né paura. Eli'ax avrebbe preso il suo posto. "Voglio provare il tuo lavoro". 
    Iniziò così la parabola ascendente di Niko. Ma non Niko. Eli'ax, nella sua forma umana, sorrideva ai passeggeri con occhi che vedevano dentro. Sapeva esattamente cosa dire, che tono usare, quando far leva su un desiderio latente o su una fragilità nascosta. I passeggeri compravano. Tutto.
Profumi generici prodotti per pochi centesimi? Esauriti. Grattaevinci con probabilità ridicole? Finiti. Snack al 500% del prezzo di terra? Polverizzati.
    Il sistema notò. Il software interno della compagnia registrò numeri mai visti. Niko-Eli'ax venne promosso. Ricevette un bonus. Divenne formatore. Poi testimonial di un video motivazionale con lo slogan: "Il cielo è il tuo negozio!".
    Alla festa annuale dei migliori venditori, in un hotel vicino all'aeroporto, con un buffet da centro congressi di provincia e luci LED intermittenti, Niko tornò. Quello vero. Pallido, spaesato, vestito con l'uniforme che non indossava da mesi. Si nascose sotto il palco. Poi, mentre il finto "Niko" (cioè Eli'ax) stava per ricevere il premio d'oro per "vendite straordinarie su tratta interna di breve raggio", uscì dal nascondiglio e si fece avanti.
"Scusate... sono io. Il vero Niko. Quello che non riusciva a vendere".
Silenzio. Risatine. Imbarazzo.
Salì sul palco. Eli'ax lo guardò. Poi, sorridendo, fece un passo indietro. E svanì. Letteralmente.
Niko restò con il microfono in mano. Un istante di buio. Poi parlò:
"So che sembrerà assurdo, ma sono stato sostituito. Da qualcuno che non era di questo mondo. Ha fatto ciò che nessun umano dovrebbe fare: ha usato poteri mentali per convincere la gente a comprare cose inutili. Non perché fosse cattivo, ma perché pensava che questo fosse il senso del mio lavoro".
"Per mesi ho lavorato sotto pressione. Ogni volo era una gara. Ogni passeggero, un bersaglio. Ogni collega, un rivale. Venivamo monitorati, classificati, schedati. Il nostro valore umano ridotto a quanti snack riuscivamo a vendere tra una turbolenza e l'altra".
"Ma io ho scelto questo mestiere per altri motivi. Per dare informazioni, sicurezza, conforto. Per aiutare chi ha paura di volare. Per indicare le uscite d'emergenza, non i profumi".
"Le vendite a bordo non sono solo fastidiose. Sono una forma di pressione psicologica sistematica sui lavoratori. Ci viene chiesto di sorridere, convincere, insistere, anche quando un passeggero dorme, è ansioso o sta leggendo. Ciò compromette l'attenzione. Stanca la mente. Anestetizza la nostra vera funzione".
"Un assistente di volo non è un venditore con le ali. È un professionista della sicurezza. E più gli chiediamo di vendere grattaevinci, meno sarà pronto a gestire un atterraggio d'emergenza".
Si fece silenzio. Poi la dirigente commerciale, con voce fredda e un sorriso di plastica, prese la parola: "Grazie, Niko, per il tuo contributo. Ma il mondo reale funziona con i numeri. Le emozioni sono importanti, ma da sole non pagano il carburante. Cerca di essere più realista, se vuoi continuare a lavorare".
Mormorii. Applausi tiepidi. Poi il presentatore chiamò il nome del premiato successivo.
Ma nel buio del fondo sala, Eli'ax ascoltava ancora.
    Nei giorni successivi, sui voli della compagnia cominciarono a verificarsi eventi strani.
Le patatine servite a bordo lasciavano un sapore amarognolo che causava nausea a molti passeggeri. I panini davano leggeri problemi gastrointestinali. I profumi comprati a bordo, una volta a terra, emanavano odori sgradevoli, come di plastica fusa e muschio stantio.
E soprattutto: i grattaevinci iniziarono a risultare tutti vincenti. Cifre da 100 a 5.000 euro. E via con i reclami, le richieste di riscatto, le lamentele su blog e social. La compagnia fu costretta a sospendere la vendita di grattaevinci per evitare il collasso economico.
Indagini. Confusione. Paura.
    Piano piano, si comprese che il gioco non valeva più la candela. Che forzare i dipendenti a vendere prodotti inutili danneggiava l’immagine dell’azienda e la sicurezza a bordo.
Furono riviste le politiche commerciali. I venditori furono sgravati dalla pressione ossessiva. Gli assistenti di volo tornarono ad avere briefing sulla sicurezza invece che corsi di vendita. Le premiazioni si trasformarono in riconoscimenti per chi gestiva con professionalità situazioni critiche.
    Niko tornò a volare. Nessuno parlava più dell'alieno. Ma ogni tanto, al decollo, sentiva come uno sguardo familiare nascosto tra le nuvole. Come se qualcuno, da lontano, stesse ancora vegliando sul modo in cui viene trattato chi serve un bicchiere d’acqua a diecimila metri d’altezza.
    Nel silenzio cosmico della sua astronave mimetizzata tra le orbite basse, Eli'ax prese nota delle reazioni umane, dei loro ostacoli, delle loro risposte emotive.
Il mestiere di assistente di volo era stato istruttivo.
Adesso, però, era pronto per una nuova esperienza.
Sul monitor olografico si aprivano i profili di altre professioni: operatore di call center, insegnante precario, barista sottopagato, portalettere in bici, medico di famiglia...
    Eli'ax sorrise, selezionò una voce a caso e mormorò: "Vediamo com’è…". 

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giovedì 19 giugno 2025

IN CAMMINO

    C'è un gesto che attraversa la storia umana più di ogni altro: camminare insieme. Marciare. La marcia è l’archetipo del cambiamento collettivo. È l’atto con cui i popoli decidono di non restare fermi. Quando le parole non bastano più e le idee vogliono farsi carne, si cammina. In silenzio o in coro, per protesta o per speranza, ma sempre con un obiettivo più grande davanti a sé.
    La marcia è il contrario dell’indifferenza: è dire “ci siamo” con i piedi, con il corpo, con la direzione. È movimento, comunità, ostinazione. E nel profondo, ogni marcia – anche quella più
piccola – è un viaggio verso ciò che ancora non esiste. Una sfida al presente, in nome di un futuro diverso.
    Ho voluto rappresentare tutto questo con un disegno. Una tavola semplice, stilizzata, ma carica di senso per me: cinque figure camminano verso il mare, verso due navi in attesa. Non sono generiche. Sono personaggi precisi, legati a una storia precisa. La mia.
    Li ho tracciati per visualizzare quello che avevo dentro: un’idea narrativa che da tempo cercava la forma giusta. Da questo disegno è nato il desiderio di raccontare una marcia collettiva fatta di dubbi, scelte, identità in crisi e alleanze improbabili.
    È così che è nato il mio primo romanzo: una distopia con un’anima malinconica e grottesca, sospesa tra il thriller politico, la fiaba adulta e l’assurdo.
    So bene che chi ama la fantascienza “seria” potrebbe storcere il naso: nel mio mondo c’è spazio per l’identità e per il ridicolo, per la tecnologia e per la tenerezza. Ma è questo l’equilibrio in cui mi riconosco. Un equilibrio fragile, a volte buffo, spesso inquietante. Come il nostro presente.
    Serviva un impianto narrativo che parlasse a tutti, anche a chi non ama la fantascienza, anche a chi della distopia non sa nulla. E così mi sono affidato a una struttura antica, quasi stereotipata, ma sempre efficace: quella in cui un uomo qualunque si trova coinvolto in un meccanismo più grande di lui.
    È l’archetipo dell’avventura moderna. L’individuo che inciampa in qualcosa di enorme, che scopre quanto il mondo possa essere diverso da come lo immaginava, e deve decidere se ignorarlo o agire.
    Ma una struttura, da sola, non fa una buona storia. A fare la differenza è il tono. È lo stile. È lo sguardo.
Il mio romanzo affronta temi inquietanti, ma prova a farlo con una lingua che si concede digressioni, ironia, tenerezza, sbavature.
Chi cerca una distopia cupa, perfettamente razionale, sempre coerente e priva di sbalzi potrebbe trovarlo spiazzante.
Chi invece accetta il fatto che anche nel disastro ci sia spazio per l’assurdo, per il buffo, per il fragile, allora forse potrà entrarci dentro.
    Proprio per visualizzare questo mondo e i suoi protagonisti, ho disegnato quella scena: la visione di quelle cinque figure viste di spalle e in cammino verso due navi ormeggiate mi era necessaria per scrivere il romanzo. 
Non sono eroi. Non sono nemmeno una squadra. Sono semplicemente persone – ciascuna con un bagaglio diverso, un passato ingombrante, una verità a metà – che si ritrovano a dover marciare insieme.
C’è chi ha l’eleganza di chi cammina tra gli altri con lo sguardo altrove, cercando qualcosa che ancora non ha un nome. Chi porta dentro un’inquietudine antica e una ferita aperta. Chi ha il potere, e lo veste di competenza per renderlo accettabile. Chi cammina perché non può più tornare indietro da ciò che, suo malgrado, ha messo in moto. E infine c’è l’elemento che stona. La figura che non dovrebbe esserci, e invece è lì. Una presenza metallica, fuori scala, quasi infantile. Una creatura artificiale, ma più umana di molti altri.
Non ho detto chi sono, né lo dirò qui. Ma chi li incontrerà nel romanzo, li riconoscerà.
    Ho disegnato questa marcia perché era l’unico modo per far capire — senza spiegare — che ciò che volevo raccontare non era una trama, ma un’energia.
Il gesto di mettersi in cammino anche quando non si ha nessuna garanzia.
La fiducia, l’ostinazione, il dubbio, l’assurdità: tutto ciò che ci rende fragili e quindi umani.
    Questa marcia, nel romanzo, attraversa un luogo che sembra reale ma non ha nome.
È una città affacciata sul mare, attraversata da scie di potere, da strutture opache, da linee invisibili che separano chi sa da chi esegue.
Un luogo dove tutto pare familiare, ma nulla è affidabile.
Dove il presente ha la consistenza del ricordo, e il futuro assomiglia troppo a una copia imperfetta di ciò che già è stato.
    I protagonisti – riluttanti, mal assortiti, a volte persino inadeguati – non hanno scelta: devono muoversi.
Devono scoprire se dietro certe coincidenze si nasconde un piano. Se i cambiamenti che osservano sono frutto di un’evoluzione naturale, o di un intervento preciso, sistematico, scientifico.
Ma soprattutto, devono capire se è ancora possibile essere sé stessi in un mondo dove la propria identità non è più garantita.
    Oggi, quel romanzo è finito. È stato consegnato a chi deve valutarlo. Ma la sua marcia continua. Non so se vedrà la luce, non so quando, né dove. Ma il cammino, quello sì, è iniziato. Ora cammina da solo, in attesa di sapere se potrà incontrare i suoi lettori. Questa è la marcia che lo accompagna.

sabato 10 maggio 2025

Il Dottor Rossi

Il dottor Rossi non era un uomo abituato a chiedere.
Per quasi quarant’anni aveva prescritto, consigliato, firmato, deciso. Con una penna impugnata con fermezza.
Ora che la sua mano tremava, costretta a sorreggere una cartellina piena di esami, sembrava che tutto ciò non avesse più alcun peso.
Entrò nell’ambulatorio con passo incerto.
Il corridoio odorava di disinfettante fresco e ansia vecchia.
C’erano sedie occupate da pazienti silenziosi, ognuno con la propria busta di referti, ognuno con un tempo di attesa previsto.
Lui no. Lui aveva un tempo non misurabile.
"Collega! Ma che piacere vederti!" disse il reumatologo, uscendo per caso dalla stanza.
Gli tese la mano con entusiasmo studiato. Rossi gli mostrò l’impegnativa, la prenotazione, i valori fuori scala. L’altro sorrise, come se stessero parlando della finale dei mondiali.
"Ma certo! Non ti preoccupare. Vieni pure quando vuoi".
"Sono venuto. Ho l’appuntamento".
"Sì, sì, ma... oggi è una giornata piena. Sai com’è. Domani magari? Passa un attimo, eh...".
Passò. Anche il giorno dopo. E quello dopo ancora. Ogni volta lo stesso sorriso, la stessa mano sulla spalla, la stessa frase:
"Sai che per te c’è sempre posto. Ma oggi ho un'urgenza".
Rossi cominciò a portare con sé un libro. Leggeva in sala d’attesa come un paziente vero. Quando chiamavano altri, abbassava lo sguardo per non sentirsi escluso.
Non sapeva se detestare più i colleghi o se stesso.
Un giorno, lo assegnarono provvisoriamente a coprire un turno scoperto nel nuovo ambulatorio sperimentale distrettuale. Da un po' di tempo l'Azienda Sanitaria se ne inventava una al giorno per le carenze di medici nel territorio.
Non capì se fosse un favore o una beffa. Indossò il camice con l’automatismo dei vecchi tempi.
Ricevette dieci pazienti. A tre prescrisse la stessa terapia di cui aveva urgente bisogno. A uno disse:
"Dovrà fare questo esame ogni due settimane. Non lo dimentichi, mi raccomando".
Il paziente annuì, grato.
Rossi pensò che anche lui non avrebbe dovuto dimenticare i controlli e la terapia, ma li aveva presenti in testa anche se nessuno glielo ricordava.
Alla fine del turno, rimase seduto un attimo in silenzio. Il collega del turno successivo arrivò in ritardo. Rossi disse: "Senti... avrei bisogno anch’io di…".
"Certo! Ti faccio io le ricette, i certificati, te lo meriti. Ma oggi non posso. C'è gente che aspetta e io a fine turno devo andare da mia moglie che…".
Non finì la frase. Il collega esclamò: "Avanti il prossimo!". E Rossi lasciò la stanza. Quella notte sognò di essere convocato per una visita alle tre del mattino. Si presentava puntuale, tremante, ma trovava solo una porta chiusa e la luce spenta. All’alba si svegliò col battito accelerato e la sensazione di aver dimenticato qualcosa. Forse un esame. Forse se stesso.
Il primo scompenso arrivò in silenzio, come una nebbia che entra da una finestra lasciata socchiusa.
Il dottor Rossi lo notò una mattina, quando, salendo una rampa di scale per visitare un anziano al terzo piano, dovette fermarsi due volte. Non per mancanza di fiato. Per mancanza di qualcosa di più profondo, di più intimo: motore, volontà, centro.
"È il cuore" pensò. "O forse i reni. O forse tutto".
Non aveva bisogno di diagnosi, conosceva a memoria i sintomi. Si impose di non cedere, di non darlo a vedere. Ma quando il paziente gli disse: "Dottore, oggi ha un’aria stanca…" lui sorrise, come per farsi perdonare.
Quella sera si decise: andò in Pronto Soccorso.
Il cartello diceva “Accesso rapido – Codici già assegnati”, ma per lui non esisteva codice.
Appena si sedette, l’infermiera lo riconobbe.
"Ma... dottor Rossi! Cosa ci fa qui?".
"Ho bisogno di un controllo. Ho edemi, ho aumento di peso, ho dispnea da sforzo...".
"Subito chiamo il medico di guardia. Ma lei non faccia fila. Ci penso io".
Lui non fece fila. Ma non fu chiamato.
Due codici verdi entrarono. Poi un codice bianco.
Poi tre pazienti accompagnati dai carabinieri.
Passarono tre ore.
L’infermiera tornò con aria colpevole:
"Il suo collega è in difficoltà, troppe urgenze… Ma appena si libera la chiama".
"Capisco" mormorò, mentre un codice verde entrava.
In realtà non capiva più nulla. Il mondo sembrava organizzato con una regola ferrea: gli altri prima. Non per gravità clinica. Per normalità.
Verso mezzanotte si alzò per andare in bagno. Tornando vide due medici mangiare davanti al monitor. Uno disse all’altro:
"C’è anche il collega Rossi, ma ormai è tardi. Magari domattina, eh?".
L’altro annuì con la bocca piena.
Se ne andò senza salutare.
Dormì male. Il giorno dopo provò a contattare un ambulatorio specialistico. Rispose la segretaria: "Il dottore oggi non riceve, ma per il collega Rossi c’è sempre un posto. Gli scriva una mail".
Scrisse tre mail. Nessuna risposta.
Cominciò a contare i giorni.
Cinque tentativi di visita. Quattro ambulatori. Due accessi in PS. Zero diagnosi. Zero terapia. Zero parole vere.
Nel frattempo lavorava. Visitava, prescriveva, rassicurava.
Ogni tanto gli sfuggiva qualcosa. Un valore trascritto male, un farmaco invertito. Gli occhi gli si chiudevano a metà frase. I pazienti non capivano, e questo lo umiliava ancora di più.
Il telefono squillò una sera.
"Collega carissimo! Ho visto la tua mail, scusa il ritardo. Domani passa, parliamo un attimo".
Rossi sentì un filo di gratitudine scorrergli nel petto.
Il giorno dopo si presentò puntuale. Il medico era lì. Ma stava partendo: "Scusami, collega. Ho un impegno urgente. Però ti penso. Davvero".
Rimase in piedi nell’atrio, con il cappotto ancora addosso, per almeno dieci minuti. Nessuno gli parlò. Nessuno lo vide.
Gli sembrò che il suo corpo fosse diventato trasparente. E pensò che se fosse morto in quel momento, forse gli avrebbero trovato un codice. Forse. Lo convocarono per un confronto clinico.
Non per curarlo, ma per “un confronto tra colleghi”.
Il dottor Rossi fu sorpreso, ma accettò. Pensò: forse mi ascoltano, forse qualcosa si muove.
Si presentò puntuale, col fascicolo degli esami, una copia dell'ultima ecografia e una penna, come se bastasse portare prove per esistere.
L’ufficio del dottor Renato Calli, direttore sanitario, era al quarto piano. Vetri oscurati, piante vere e silenzio ovattato.
Calli lo accolse con un sorriso disarmante, la voce rotonda da simposio, l’aria da pastore illuminato: "Carissimo collega, accomodati. Come stai?".
Rossi si sedette. Cominciò a parlare del peso che cresceva, della pressione altalenante, delle fitte notturne. Mostrò le analisi. Parlò piano, come si parla a chi potrebbe non comprendere.
Calli ascoltava con occhi pieni di finta empatia: "Hai fatto tanto per questa struttura. Nessuno lo dimentica. E ora che sei tu ad avere bisogno… ecco, dobbiamo fare attenzione".
"Attenzione? A cosa?"
Calli si alzò, andò alla finestra.
"A non creare tensioni. Gli altri pazienti, i colleghi… vedi, tu sei un simbolo. Devi dare un esempio. Non possiamo farti sembrare… un utente qualsiasi".
"Io sono un utente qualsiasi. Sto male. Ho bisogno".
La voce gli tremò, ma non d’ira. Di vergogna. Per lui. Per tutti.
Calli si girò.
"Lo so. Per questo ho parlato col reparto. Ti riceveranno appena possibile. Forse tra due settimane. Ma non devi stare in corridoio o in sala d'attesa; ti serve un ambulatorio, puoi usare il nostro. Tieni la chiave. Fai base qui. Ti chiamo io".
Gli diede davvero una chiave.
Un ufficio senza lettino. Senza ecografo. Senza personale.
Rossi passò le due settimane recandosi quotidianamente nell’ufficio vuoto, mettendosi seduto alla scrivania come un ospite dimenticato. Usciva ogni tanto per prendere un caffè. Salutava chi passava.
Quando, alla fine, tornò al reparto per la visita promessa, fu accolto da un medico giovane che non l’aveva mai visto prima.
"Ah, è lei il collega? Calli mi ha parlato molto bene di lei. Pensavo fosse una consulenza. Ma non ho tempo oggi. Provi lunedì. Oppure…".
"Oppure?".
"Scriva una mail direttamente al primario. Lui la segue personalmente, vero?".
Rossi non rispose. Tornò giù a piedi, lentamente.
Fuori pioveva, ma non aprì l’ombrello.
Nel tragitto verso casa si chiese se fosse stata tutta colpa sua. Forse non era stato abbastanza insistente. Forse era sembrato forte. O forse non era più riconoscibile: né come medico né come paziente. Una figura sospesa, da tenere in tasca come un biglietto da visita smangiato, da esibire con rispetto e da ignorare con discrezione.
Arrivato a casa, aprì la cartella clinica sul computer.
Scrisse una nota:
“Stato attuale: peggioramento progressivo. Cure: in attesa”.
Poi rise.
Rideva da solo. Ma era una risata corta. Tagliata.
Nei giorni successivi, il dottor Rossi smise di dormire.
Non per insonnia, ma per vergogna. Una vergogna sorda, radicata, che montava ogni volta che chiudeva gli occhi. Gli tornavano in mente i volti gentili dei colleghi che lo accoglievano con frasi come “Vedrai che ti sistemo tutto io”, ma poi sparivano in una riunione, un convegno, una mail da scrivere. E lui rimaneva lì, con la cartellina aperta e lo stomaco chiuso.
Cominciò a parlare con se stesso nei corridoi. A bassa voce.
Diceva frasi come:
"Oggi forse. Oggi sì".
Oppure: "È solo una visita. Non chiedo l’elemosina".
Un giorno, entrando nell’ambulatorio di cardiologia, trovò la porta chiusa. Non per guasto. Ma perché stavano dentro a mangiare. Lo vide dallo spiraglio. Due colleghi davanti a un vassoio di pizzette.
Bussò. Nessuna risposta. Bussò di nuovo.
Uno dei due si alzò, aprì appena:
"Rossi, collega, proprio adesso? Dai, torna più tardi. O scrivi una mail".
"L’ho già scritta una mail, anzi sette".
"Ah. Allora risponderanno".
Non risposero.
Il gonfiore alle caviglie era diventato permanente. Ogni mattina infilare i calzini era una trattativa con la gravità. Il viso era pallido, gli occhi incavati.
Un paziente gli disse: "Dottore, sta bene?".
E lui rispose, senza pensarci: "No. Ma non importa".
Cominciò a saltare le colazioni. Poi i pranzi. Poi le medicine. Non per dimenticanza, ma per stanchezza. Ogni gesto gli sembrava inutile. 
Un lunedì mattina crollò nella sala d’attesa della sua ASL.
Gli infermieri accorsero.
Uno disse: "È il dottor Rossi!".
L’altro: "Ma che ci faceva lì, in piedi? Aspettava?".
"Sì. Aveva detto che voleva vedere un collega".
Lo portarono in PS.
Gli assegnarono un codice giallo, poi declassato a verde.
"È un medico, non farà storie" dissero.
Mentre era steso su una barella, udì due infermieri parlare tra loro, senza abbassare la voce:
"Questo è quello che da settimane cerca di farsi visitare, no?".
"Eh sì. Ma nessuno ha voglia di prenderselo in carico. È un casino. Mezzo paziente, mezzo collega".
Poi uno aggiunse: "Mi fa quasi pena. Però… anche lui dovrebbe capire. Non può pretendere di essere trattato come un paziente qualsiasi".
Rossi non parlò.
Aveva freddo, ma non chiese una coperta.
Quella notte non dormì. Vide la flebo scendere, goccia dopo goccia, come un metronomo muto. Pensò a quante volte aveva detto ai suoi pazienti:
"Tranquillo, ci penso io".
Pensò a quante volte l’avevano detto a lui.
Il numero era lo stesso. Solo che nel suo caso, nessuno l’aveva fatto davvero.
Il mattino dopo, una dottoressa giovane si avvicinò.
"Dottor Rossi… le hanno rifatto gli esami. È in peggioramento. Dobbiamo ricoverarla. Ma il reparto è pieno".
"Pieno. Sì. Capisco".
La dottoressa si morse il labbro. Poi disse: "Potremmo metterla in appoggio. In sala visite. Solo per oggi. Poi vediamo".
E così fu.
Lo sistemarono su una lettiga in un ambulatorio vuoto. Lì passò tre giorni, tra carrelli e armadietti. Senza bagno personale. Senza finestra.
Quando un collega entrava per sbaglio, lo salutava con imbarazzo.
"Oh… sei tu? Ma che ci fai lì?".
"Aspetto che mi visitino".
"Ancora? Ma… pensavo che…".
Nessuno finiva mai le frasi.
Il quarto giorno, nella sala visite dove era stato “appoggiato”, il dottor Rossi smise di rispondere alle domande.
Non per sgarbo. Non per ribellione. Ma per stanchezza.
Risparmiava le parole, come si risparmiano i respiri quando l’aria sembra costare fatica.
Un’infermiera entrò con una cartellina.
"Come va, dottore?"
Silenzio.
"Serve qualcosa?"
Lui fece un mezzo gesto, un cenno che voleva dire “non so”, oppure “non importa”.
Lei uscì in fretta. Forse spaventata, forse solo in ritardo.
Nel pomeriggio ebbe una crisi.
Una di quelle che, su un altro paziente, avrebbe attivato un codice rosso. Per lui fu attivato un consulto. Il collega di medicina interna, chiamato d’urgenza, arrivò dopo quaranta minuti.
"Oddio. Ma è lui? È Rossi?".
"Sì. Era in appoggio. Aspettava un posto".
Il medico guardò i parametri, poi la faccia scavata, le mani fredde, le caviglie come sacche d’acqua.
"Ma perché non è stato ricoverato subito?".
L’infermiera lo guardò senza rispondere.
Lo trasferirono nel reparto la sera stessa. Un letto allestito in fretta, una flebo piazzata male, un monitor collegato con l’allarme disattivato.
Entrò il caporeparto.
"Accidenti, ma com’è potuto succedere? Nessuno sapeva. Nessuno mi ha detto…"
Lo disse come una formula.
Il mattino dopo, il dottor Rossi era ancora vivo. Ma non parlava più.
Una giovane specializzanda, ignara di tutto, scrisse nel diario clinico:
“Paziente collaborante in passato, ora poco reattivo. Non ci sono familiari noti. Ex medico".
La definizione definitiva. “Ex medico”. L’ultima cartella, l’ultima etichetta.
Non paziente fragile, non collega, non nome.
Solo “ex”.
Nella stanza accanto, un paziente con la stessa patologia veniva trattato con farmaci che Rossi aveva indicato anni prima in un protocollo. Lo sentì dire: "Mi hanno curato in tempo. Che fortuna avere un’équipe così attenta!".
Qualcuno propose di metterlo in una RSA, ma la pratica fu rinviata.
Qualcuno parlò di una "commissione valutativa", ma non si riunì mai.
Il giorno seguente, alle 6:40, l’infermiera del cambio turno lo trovò immobile, con lo sguardo aperto e vuoto. La flebo era finita da ore. Il monitor spento. Sul comodino, un foglio scarabocchiato: “Grazie comunque”.
Lo lessero in due. Nessuno capì a chi fosse rivolto. Forse a nessuno. Forse a tutti.
Una settimana dopo, un collega pubblicò un post:
“Addio a un grande medico. Il dottor Rossi ci ha lasciati. Una vita per i pazienti. Un esempio per tutti noi. Sempre disponibile, sempre sorridente”.

Ricevette cento like.
Qualcuno commentò: “Mi dispiace. Non sapevo stesse male”.
Nessuno sapeva niente. Tutti avevano parlato con lui. Nessuno l’aveva ascoltato.
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martedì 25 febbraio 2025

La voce del contrappasso

    Tre anni fa, all'uscita del romanzo Contrappasso di Andrea Delogu, mi ero immerso in un viaggio letterario che mi aveva profondamente colpito, tanto da realizzare una delle mie prime recensioni, che potete leggere qui. Oggi, con l’arrivo dell'audiolibro del romanzo, questo percorso si rinnova e si arricchisce, offrendo una prospettiva diversa e sorprendente.
   L’elemento che trasforma radicalmente l’esperienza è che la narrazione dell' audiolibro è affidata all’autrice stessa. Quando un autore legge le proprie opere, emerge  tutta l’anima e la passione con cui le ha scritte: c’è qualcosa di veramente magico in un audiolibro in cui lo stesso scrittore diventa interprete, perché trasforma il testo in un'esperienza viva e multisensoriale in cui ritmo, intonazione e sfumature emotive arricchiscono il racconto. Prendiamo ad esempio i celebri racconti di Fantozzi letti da Paolo Villaggio, la cui interpretazione ha trasformato il testo in un momento indimenticabile.     Allo stesso modo, Andrea Delogu, grazie alla sua esperienza come conduttrice e attrice, riesce a donare al suo romanzo una nuova luce, rendendo ogni parola ancora più intensa e coinvolgente. 
    In questo aggiornamento non intendo limitarmi a riproporre fedelmente quanto scritto tre anni fa, ma a reinterpretare e approfondire quei concetti alla luce di questa nuova esperienza d’ascolto. Contrappasso si conferma  un invito a percorrere un mondo distopico emozionante, e, con questa prospettiva rinnovata, il mio intento è di celebrare ancora una volta l’opera, segnalandola in questa nuova veste, ribadendo l'alto valore di questo romanzo di fantascienza italiano. 
Che romanzo è Contrappasso?
    Ambientato trenta anni dopo un drammatico mutamento che ha investito il pianeta come un incubo, il romanzo immagina che, nel 2022, un fenomeno quasi magico abbia imposto nella natura una legge del taglione globale; ogni volta che si uccide un animale, l’essere umano subisce immediatamente una punizione
speculare: schiacciare una formica, ad esempio, comporta un destino in cui il corpo si appiattisce, lacerandosi e deformandosi riproducendo il medesimo destino dell’insetto. Quel fatidico giorno del 2022, in cui la gente iniziava a morire in maniera violenta e raccapricciante, e in cui l’uccisione di un animale – grande come una mucca o piccolo come una mosca – determinava, per ragioni oscure, una reazione immediata e speculare nell’uccisore, viene raccontato trenta anni dopo. La nostra protagonista, Sara, una giovane di 25 anni che non ha conosciuto il mondo “prima del contrappasso”, decide di indagare su chi ha preso il controllo della società, trasformando la vita quotidiana in una prigione, giustificando ogni azione con il pretesto della sopravvivenza ad ogni costo.
    Le narrazioni che si spingono ai confini della fantasia – che si tratti di invasioni aliene, disastri ambientali, incantesimi misteriosi o epiche saghe di popoli immaginari – sono sempre specchi dell’animo umano. Esse rappresentano un viaggio nelle domande esistenziali più profonde, una lama che penetra le incertezze più intime.
    Contrappasso ha segnato l'esordio di Andrea Delogu nella narrativa pura. Dopo aver accompagnato i lettori nei suoi due libri precedenti, in cui ha narrato episodi della propria vita reale – dalla sua infanzia a San Patrignano alla sua esperienza con la dislessia – l’autrice li conduce in un universo di fantascienza distopica. La forza del romanzo sta nella sfida di affrontare una concezione "alla Stephen King" e di sviluppare personaggi, intrecci, colpi di scena ed emozioni che catturano il lettore sin dall' inizio dell' opera. Io giudico un libro – o un
telefilm – in base a quanto riesca a coinvolgermi, a quanto non mi annoi. Se sentiamo l’impulso di lasciarci alle spalle tutto per immergerci in una storia veramente coinvolgente, allora abbiamo trovato l’opera che fa per noi, ed è un’esperienza letteraria che non capita molte volte. 
    Un universo dove tutta la nostra quotidianità deve essere ripensata sfida l' anima e la mente di un autore, che deve per forza metterci anche la propria oscurità interiore e il proprio sole; in questo romanzo questa elaborazione è evidente più che mai, ed è raro avvertire nel leggere storie fantastiche la sensibilità di chi narra.
    Ho chiesto all' autrice cosa avesse provato a leggere "per tutti" il suo romanzo, mi ha risposto:

"Ho provato un dolore immenso, perché ho finalmente percepito tutto ciò che gli altri provavano leggendo le mie parole. Inventare una storia è un conto, ma rileggerla dopo tanti anni mi ha ferita profondamente, perché, in verità, ho compreso di essere stata crudele."

    L’ispirazione per questo libro era nata per Andrea Delogu nei primi giorni del lockdown, in quei tempi in cui uscire di casa era consentito solo per motivi essenziali e dove, per fare la spesa, si faceva la fila in interminabili attese. Una mattina, l’autrice si recò al mercato e fu convinta ad acquistare delle cicale di mare, note anche come canocchie, crostacei tipici del Mediterraneo. Dopo giorni passati a consumare cibi surgelati, Delogu era lieta di potersi concedere qualcosa di fresco. Tornata a casa, decise di cucinare le canocchie in padella con aglio e olio; ma ben presto si accorse che quelle che le erano state presentate come freschissime erano, in realtà, vive e si agitavano nell’olio bollente. Pur essendo normale consumare animali già uccisi, puliti e freddi, vedere quelle creature muoversi in modo così intenso la sconvolse profondamente, tanto da impedirle di cenare quella sera. Immersa in quella scena, passò la notte a scrivere il dolore che provava, dando così vita all’incipit del libro, in cui racconta di una donna che, nel cuocere le canocchie, scatena conseguenze terribili.
    Dal concepimento di quell’incipit alla proposta editoriale passò ben poco, dando inizio a un percorso creativo di due anni che portò alla nascita di Contrappasso. Da quell’idea iniziale nacque un intero universo: un pianeta in cui, da trent’anni, l’uomo non può più uccidere alcun animale – un’epoca definita da questo contrappasso che ha trasformato le città (tutte imbiancate per non celare nemmeno il più piccolo insetto), le regole della convivenza, il rapporto con la salute e il valore stesso della vita umana. In questo nuovo mondo, la quotidianità viene radicalmente ripensata, sfidando l’anima e la mente di chi lo descrive, costringendolo a vivere l' elaborazione di una storia come un' esplorazione di sé, che qui traspare in ogni pagina, ed è raro incontrare una sensibilità narrativa così acuta nelle storie fantastiche. Un passaggio che mi ha particolarmente colpito è quello in cui si evidenzia il contrasto tra i medici della vecchia generazione, abituati a un mondo privo del contrappasso, e quelli della nuova generazione, con un approccio diverso al giuramento di Ippocrate. Tale differenza, per me, rende in modo emozionante l’essenza della professione medica, evidenziando le sfide poste dalla nuova realtà.
   È semplice immaginare un mondo basato su un’ipotesi così assurda, ma il vero compito del narratore è rendere coerenti tutte le conseguenze logiche che ne derivano. Il  “mondo nuovo” di Contrappasso si svela attraverso un’indagine rivolta a mettere in luce chi, con regole inaccettabili agli occhi della protagonista, regola la vita delle persone. Tra una trama da thriller mozzafiato e una storia d’amore essenziale, che dona ai personaggi una vitalità quasi tangibile in un contesto surreale, Contrappasso diviene un  mondo in cui ci immergiamo completamente. L’autrice ci offre la possibilità di esplorare questo scenario da molteplici angolazioni, perché un cambiamento radicale, frutto di una crisi profonda, non può essere compreso con una visione ristretta; a volte occorre una vera rivoluzione copernicana nell’osservazione. Una volta narrate le vicende, Delogu si addentra nel passato dei personaggi chiave, permettendoci di comprendere come e perché siano divenuti ciò che sono.
   
Nelle 426 pagine (12 ore e mezza di audiolibro) di Contrappasso, il confine tra bene e male non è rigidamente tracciato; il romanzo non si limita a una semplice denuncia animalista, né si perde in oscurità o orrore. Si tratta di una narrazione in cui i personaggi sono delineati con cura e la trama si sviluppa in modo fluido, alternando scenari e atmosfere al momento giusto. Un mondo che improvvisamente deve ricostruirsi abbandonando le vecchie strutture offre una tavolozza ideale sulla quale dipingere domande, come fossero colori. I protagonisti, costretti a prendere decisioni cruciali, affrontano dilemmi di una portata che altri generi letterari difficilmente possono esplorare, proprio perché la fantascienza abbatte le barriere dell’immaginazione. Ed è proprio questa narrazione di possibilità sfrenate a catturare l’interesse di chi ama il genere: un modo per analizzare il presente attraverso il racconto di un futuro ipotetico, quasi come la costruzione di un sogno. Contrappasso si conferma così, ancora una volta, come un’opera di narrativa di anticipazione capace di stimolare riflessioni profonde e appassionare il lettore.
    Negli ultimi mesi mi sono dedicato alla scrittura del mio primo romanzo, una storia di fantascienza con elementi distopici e investigativi, incentrata sulle conseguenze di una tecnologia sfuggita di mano. Mentre lavoro alla costruzione del mio mondo narrativo, mi rendo conto di quanto sia cruciale il modo in cui una distopia viene raccontata per renderla credibile e coinvolgente. Contrappasso di Andrea Delogu, con la sua capacità di intrecciare un’idea forte con personaggi vivi e una narrazione avvincente, mi è stato di grande ispirazione. Il modo in cui l’autrice sviluppa le implicazioni del suo scenario senza mai sacrificare l’umanità dei protagonisti mi ha fatto riflettere su come bilanciare il contesto e l’intreccio nella mia stessa storia.
    In questa nuova versione della recensione consentitemi di aggiungere che Andrea Delogu si distingue per una creatività fuori dal comune, che si esprime con una grazia e una passione capaci di toccare il cuore del pubblico. Nei suoi interventi – che si tratti di social media, libri o trasmissioni – unisce un'intelligenza al servizio del bene a una sincera attenzione verso debolezze, vulnerabilità e fragilità umane, spesso raccontando esperienze personali. Questa sua nuova avventura dove ha fortemente voluto riproporre la "potente" storia di Contrappasso, mostra nuovamente la sua capacità di affrontare nuove sfide artistiche trasmettendo un calore autentico.
 

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