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giovedì 19 giugno 2025

IN CAMMINO

    C'è un gesto che attraversa la storia umana più di ogni altro: camminare insieme. Marciare. La marcia è l’archetipo del cambiamento collettivo. È l’atto con cui i popoli decidono di non restare fermi. Quando le parole non bastano più e le idee vogliono farsi carne, si cammina. In silenzio o in coro, per protesta o per speranza, ma sempre con un obiettivo più grande davanti a sé.
    La marcia è il contrario dell’indifferenza: è dire “ci siamo” con i piedi, con il corpo, con la direzione. È movimento, comunità, ostinazione. E nel profondo, ogni marcia – anche quella più
piccola – è un viaggio verso ciò che ancora non esiste. Una sfida al presente, in nome di un futuro diverso.
    Ho voluto rappresentare tutto questo con un disegno. Una tavola semplice, stilizzata, ma carica di senso per me: cinque figure camminano verso il mare, verso due navi in attesa. Non sono generiche. Sono personaggi precisi, legati a una storia precisa. La mia.
    Li ho tracciati per visualizzare quello che avevo dentro: un’idea narrativa che da tempo cercava la forma giusta. Da questo disegno è nato il desiderio di raccontare una marcia collettiva fatta di dubbi, scelte, identità in crisi e alleanze improbabili.
    È così che è nato il mio primo romanzo: una distopia con un’anima malinconica e grottesca, sospesa tra il thriller politico, la fiaba adulta e l’assurdo.
    So bene che chi ama la fantascienza “seria” potrebbe storcere il naso: nel mio mondo c’è spazio per l’identità e per il ridicolo, per la tecnologia e per la tenerezza. Ma è questo l’equilibrio in cui mi riconosco. Un equilibrio fragile, a volte buffo, spesso inquietante. Come il nostro presente.
    Serviva un impianto narrativo che parlasse a tutti, anche a chi non ama la fantascienza, anche a chi della distopia non sa nulla. E così mi sono affidato a una struttura antica, quasi stereotipata, ma sempre efficace: quella in cui un uomo qualunque si trova coinvolto in un meccanismo più grande di lui.
    È l’archetipo dell’avventura moderna. L’individuo che inciampa in qualcosa di enorme, che scopre quanto il mondo possa essere diverso da come lo immaginava, e deve decidere se ignorarlo o agire.
    Ma una struttura, da sola, non fa una buona storia. A fare la differenza è il tono. È lo stile. È lo sguardo.
Il mio romanzo affronta temi inquietanti, ma prova a farlo con una lingua che si concede digressioni, ironia, tenerezza, sbavature.
Chi cerca una distopia cupa, perfettamente razionale, sempre coerente e priva di sbalzi potrebbe trovarlo spiazzante.
Chi invece accetta il fatto che anche nel disastro ci sia spazio per l’assurdo, per il buffo, per il fragile, allora forse potrà entrarci dentro.
    Proprio per visualizzare questo mondo e i suoi protagonisti, ho disegnato quella scena: la visione di quelle cinque figure viste di spalle e in cammino verso due navi ormeggiate mi era necessaria per scrivere il romanzo. 
Non sono eroi. Non sono nemmeno una squadra. Sono semplicemente persone – ciascuna con un bagaglio diverso, un passato ingombrante, una verità a metà – che si ritrovano a dover marciare insieme.
C’è chi ha l’eleganza di chi cammina tra gli altri con lo sguardo altrove, cercando qualcosa che ancora non ha un nome. Chi porta dentro un’inquietudine antica e una ferita aperta. Chi ha il potere, e lo veste di competenza per renderlo accettabile. Chi cammina perché non può più tornare indietro da ciò che, suo malgrado, ha messo in moto. E infine c’è l’elemento che stona. La figura che non dovrebbe esserci, e invece è lì. Una presenza metallica, fuori scala, quasi infantile. Una creatura artificiale, ma più umana di molti altri.
Non ho detto chi sono, né lo dirò qui. Ma chi li incontrerà nel romanzo, li riconoscerà.
    Ho disegnato questa marcia perché era l’unico modo per far capire — senza spiegare — che ciò che volevo raccontare non era una trama, ma un’energia.
Il gesto di mettersi in cammino anche quando non si ha nessuna garanzia.
La fiducia, l’ostinazione, il dubbio, l’assurdità: tutto ciò che ci rende fragili e quindi umani.
    Questa marcia, nel romanzo, attraversa un luogo che sembra reale ma non ha nome.
È una città affacciata sul mare, attraversata da scie di potere, da strutture opache, da linee invisibili che separano chi sa da chi esegue.
Un luogo dove tutto pare familiare, ma nulla è affidabile.
Dove il presente ha la consistenza del ricordo, e il futuro assomiglia troppo a una copia imperfetta di ciò che già è stato.
    I protagonisti – riluttanti, mal assortiti, a volte persino inadeguati – non hanno scelta: devono muoversi.
Devono scoprire se dietro certe coincidenze si nasconde un piano. Se i cambiamenti che osservano sono frutto di un’evoluzione naturale, o di un intervento preciso, sistematico, scientifico.
Ma soprattutto, devono capire se è ancora possibile essere sé stessi in un mondo dove la propria identità non è più garantita.
    Oggi, quel romanzo è finito. È stato consegnato a chi deve valutarlo. Ma la sua marcia continua. Non so se vedrà la luce, non so quando, né dove. Ma il cammino, quello sì, è iniziato. Ora cammina da solo, in attesa di sapere se potrà incontrare i suoi lettori. Questa è la marcia che lo accompagna.

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